Linde Burkhardt Texte

Percursos

2012

Per molto tempo ho conosciuto il Portogallo soltanto in modo schematico attraverso i libri di storia: la formazione del suo vasto impero coloniale, la sua potente flotta navale o le conquiste di Enrico il Navigatore e di Vasco da Gama, scopritore della via marittima per le Indie. Ma anche Coimbra, l’università più antica del Portogallo. E ancora Lisbona, splendido centro di traffici e commerci dove affluivano artisti, artigiani e mercanti sin dal XV secolo e che il terremoto del 1755 distrusse quasi completamente, come raccontano sia Goethe che Kleist. Avevo anche letto che prima della scoperta dell’America si credeva che il Portogallo si trovasse al margine estremo del mondo occidentale, e che da lì in poi cominciassero gli Inferi.

In modo inatteso questa idea un po’ sbiadita che avevo del Portogallo cominciò a prendere colore grazie alla conoscenza con Álvaro Siza, con cui mio marito ed io stringemmo una bella amicizia a partire dal 1974. Álvaro era arrivato a Berlino per partecipare a un workshop di una settimana organizzato dal Design Zentrum ed era nostro ospite, circostanza che favorì un intenso scambio di idee. Mi stupiva con le sue architetture luminose e piene di sensibilità e mi incuriosiva con i suoi racconti sul Portogallo. Fu anzi il primo a darmi dei consigli sugli scrittori portoghesi. Ovviamente non potevo leggerli tutti dato che non erano ancora stati tradotti, ma Fernando Pessoa esercitò da subito un fascino potente su di me. Solo molto tempo dopo ebbi occasione di leggere uno scritto di Antonio Tabucchi che lo annoverava tra i maggiori poeti del Novecento.

“Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso” (Cada um de nós é vários, é muitos, é uma prolixidade de si mesmos). Questa frase di Pessoa mi ha colpito e ha suscitato in me molti pensieri. Pessoa nelle sue poesie si è per così dire raddoppiato, triplicato, quadruplicato. “Eteronimi” vengono chiamati i poeti da lui inventati, con origini e professioni differenti, per ciascuno dei quali egli scrisse un corpus letterario del tutto autonomo. Pessoa fece persino in modo che questi poeti immaginari discutessero pubblicamente tra loro, litigassero o si elogiassero reciprocamente, e li pubblicò sulla propria rivista letteraria “Orpheu”.

Ho letto solo in parte i libri di Pessoa, ma il fatto che un singolo individuo riesca a perseguire in maniera così libera – nelle opere dei personaggi da lui stesso creati – varianti così diverse della sua visione del mondo riuscendo per di più a farle interagire, mi pareva e mi pare semplicemente grandioso. Di molti artisti figurativi conosco la successione storica degli stili della loro produzione. Tutti sanno, per esempio, quali e quanti cambiamenti sono avvenuti nell’opera di Pablo Picasso. Ma non conosco nessuno che come Pessoa abbia atteso alle proprie opere in modo per così dire parallelo, nel corso di una stessa sera o di una stessa notte.

Fernando Pessoa è diventato così lo spunto per alcuni progetti di tappeti nei quali interpreto figurativamente alcuni aspetti molto circoscritti della sua opera e di quella dei suoi tre eteronimi più importanti: Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Álvaro de Campos.

Trasferire le sensazioni soggettive prodotte dalla lettura in un mezzo espressivo differente come la pittura, caratterizzato dal colore e dalla forma, potrebbe sembrare all’osservatore esterno quasi un atto arbitrario. Ancora di più se la trasposizione si riferisce solo a piccole parti di una produzione letteraria in cui si trovano molte altre pagine a volte in contraddizione tra loro. Per rendere in qualche modo più chiare le mie scelte citerò di seguito alcuni brevi passi a cui si riferiscono i progetti cromatici e i tappeti.

Fernando Pessoa

Dalle fotografie e dagli scritti di Pessoa si ricava l’immagine di un uomo malinconico, timido, lontano dal mondo e incline alla depressione – da un punto di vista cromatico tutto questo dovrebbe essere reso con un grigio uniforme. In realtà ho preferito attribuirgli varie tonalità di rosso, perché dietro il suo aspetto dimesso e l’incredibile multiformità della sua opera ho percepito una visione del mondo addirittura incandescente, che apre molteplici possibilità al pensiero, alla scrittura, alla filosofia e al dibattito relativo.

(...) Tutti noi che sognamo e pensiamo siamo aiutanti e contabili in un Emporio di tessuti o di qualsiasi altra merce in una qualsiasi Baixa. Facciamo conti e perdiamo; sommiamo e passiamo via; chiudiamo il bilancio, e il saldo invisibile è sempre contro di noi. (...)

Livro do Desassossego por Bernardo Soares, frammento 53 (124), trad. it. Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Feltrinelli, Milano 1986.

Alberto Caeiro

Pessoa definisce Alberto Caeiro il suo maestro e anche gli altri tre eteronimi lo considerano un maestro. Caeiro vive tra il 1889 e il 1915 appartato nelle campagne del Ribatejo. Quasi privo di cultura, si dedica alla contemplazione della natura. Considera la natura solo per l’esperienza immediata che ne può avere attraverso i sensi. Ogni cosa vale per sé, non ci sono segreti inafferrabili dietro di essa.

Sono un guardiano di greggi.
Il gregge è i miei pensieri
e i miei pensieri sono tutti sensazioni.
Penso con gli occhi e con gli orecchi
e con le mani e i piedi
e con il naso e la bocca.

Sou um guardador de rebanhos.
O rebanho é os meus pensamentos
E os meus pensamentos sao todos sensações.
penso com os olhos e com os ouvidos
E com as maos e os pés
E com o nariz e a boca.

O guardador de rebanhos, trad. it. Il guardiano di greggi, in Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, vol. II, a cura di Antonio Tabucchi, Adelphi, Milano 1984.

Álvaro de Campos

Pessoa se lo immagina come un ingegnere navale, un uomo del Sud nato a Tavira nell’Algarve. Lo vede come un dandy impeccabile, elegante e nevrotico, tormentato dalle paure.

Mettere in ordine la vita, sistemare delle scaffalature nella volontà e nell’azione... È quello che voglio fare ora, come l’ho voluto sempre, con lo stesso risultato; ma che bello avere il proposito chiaro, fermo solo nella chiarezza, di fare una cosa qualsiasi! (...)

Arrumar a vida, pôr prateleira na vontade e na acção. Quero fazer isto agora, como sempre quis, com o mesmo resultado; Mas que bom ter o propósito claro, firme só na clareza, de fazer qualquer coisa! (...)

Quasi, trad. it. Quasi, in Poesie di Álvaro de Campos, a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi, Adelphi, Milano 1993.

Ricardo Reis

Pessoa fa venire al mondo Ricardo Reis a Porto nel 1887. È medico e tra le sue passioni figurano il mondo classico e quello ellenistico. La sua lettura preferita sono le poesie di Orazio, ma egli stesso scrive volentieri delle odi.

Una via l’altra le onde che si incalzano
avvolgono il loro verde movimento
e la bianca schiuma crepita
sul bruno delle spiagge.
Una via l’altra le indolenti nuvole
lacerano il loro tondo movimento
e il sole scalda lo spazio
dell’aria fra le nubi rade.
Indifferente a me, e io a lei,
la natura di questo giorno calmo
poco ruba al mio senso
dello svanire del tempo.
Solo una vaga pena inconseguente
indugia un poco alla porta del mio animo
e dopo avermi un attimo fissato
passa, sorridendo di niente.
23.11.1918

Uma após uma as ondas apressadas
Enrolam o seu verde movimento
E chiam a alva spuma
No moreno das praias.
Uma após uma as nuvens vagarosas
Rasgam o seu redondo movimento
E o sol aquece o spaco
Do ar entre as nuvens scassas.
Indiferente a mim e eu a ela,
A natureza deste dia calmo
Furta pouco ao meo senso
De se esvair o tempo.
Só uma vaga pena inconsequente
Pára um momento à porta da minha alma
E após fitar-me um pouco
Passa, a sorrir de nada.
23.11.1918

Odes, livro primo, trad. it Odi, in Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, vol. II, a cura di Antonio Tabucchi, Adelphi, Milano 1984.

La ceramica nera

Nel 1977 Álvaro Siza ci regalò un libro al quale aveva collaborato in maniera significativa Fernando Távora, suo professore e maestro. Argomento del volume era il regionalismo nell’architettura portoghese. Pagina dopo pagina venivano mostrate le architetture tipiche di ciascuna regione del Paese – modeste o lussuose, urbane o rurali. Queste immagini fecero nascere in me un’idea finora sconosciuta del Portogallo.

In alcune foto sulle mensole di cucine intonacate di bianco si vedevano piatti, brocche e scodelle in ceramica nera non vetrinata. Ero sorpresa dalla semplicità e dalla forza di questi oggetti tradizionali di uso quotidiano e dal loro straordinario valore estetico.

Da quel momento cominciai a interessarmi alla tecnica antichissima della ceramica nera, portata alla massima perfezione nel corso dei millenni dagli Etruschi e dai popoli dell’Africa e del Sud America. In tutto il mondo ancora oggi vengono utilizzate tecnologie identiche o molto simili per cuocere l’argilla fino a farla diventare nera. Per millenni il processo di cottura si è svolto all’interno di forni in terra situati all’aperto. Dopo essere state leggermente essiccate le ceramiche vengono posizionate in una fossa scavata nel terreno che viene riempita di erbe leggermente umide, paglia, foglie, sterpaglie o, in Bolivia, sterco di lama. Appena prima di chiudere dall’alto la fossa si accende il combustibile. Sterpi, erbe, paglia e legno iniziano a bruciare, producendo fumo e bruciando a lungo senza fiamma. Il risultato di questo processo è un fumo denso e fuligginoso. Cuocendo le ceramiche per tre giorni e tre notti sotto attenta sorveglianza si ottiene una perfetta colorazione nera.

Questo processo di cottura è simile in tutto il mondo e viene declinato localmente variando le tecniche di finitura o nobilitazione degli oggetti da cuocere. L’atmosfera riducente conferisce alla ceramica un colore nero che si fissa in profondità.

Particolarmente apprezzati sono i “buccheri” etruschi, vasi e recipienti prodotti tra il VII e il VI secolo a.C. e caratterizzati da una superficie nera lucente ottenuta per mezzo di raffinate lavorazioni. È interessante l’origine del nome di questi oggetti, che risale alla fine del XIX secolo della nostra éra: in questo periodo dal Portogallo venivano importate in Italia stoviglie di ceramica scura chiamate appunto “buccheri”, dal portoghese bucáro, letteralmente “terra profumata”. Si tratta dello stesso termine con cui i primi conquistatori portoghesi del Sud America indicavano le ceramiche grigio-nere molto diffuse nel nuovo continente (si veda a questo proposito il catalogo “Bucchero - Die Keramik der Etrusker”, 2001 Ruhruniversität Bochum).

In Portogallo andai alla ricerca dei siti in cui viene prodotta ancora oggi la ceramica nera. Scoprii che in effetti questa tecnica viene usata soltanto in piccoli ambiti periferici, il che è sorprendente se si pensa che nel XIX secolo questa ceramica costituiva una merce da esportazione molto richiesta. Grazie alla collaborazione e al supporto attivo di Cecilia Cavaca e Álvaro Siza ho visitato nei dintorni di Chavez, presso Villa Real e a Tondéla-Molelhos alcuni vasai che producono ancora la ceramica nera. Ho avuto modo di capire come si lavora la ceramica utilizzando le tecniche tramandate dalle generazioni passate e come ancora oggi sia d’uso cuocere tutti insieme un grande numero di oggetti di ceramica all’interno di grandi fosse nel terreno dopo averli essiccati. Ho potuto gettare uno sguardo su condizioni di lavoro difficilissime che rimandavano a un mondo arcaico. A Tondéla-Molelhos mi sono imbattuta in alcuni ceramisti che utilizzavano le vecchie tecniche di cottura nel terreno ma erano in grado di cuocere la ceramica nera in un forno a legna.

Fernando Pessoa scrive a proposito della vita di Alberto Caeiro che questi “osservava il mondo dalla sua casa solitaria intonacata di bianco”. La casa intonacata di bianco, con all’interno una grande cucina, si è riempita subito nella mia mente degli oggetti quotidiani di ceramica nera che Pessoa non menziona: grandi piatti, brocche e scodelle, contenitori più piccoli per i cibi, bottiglie per l’olio, un vaso per il miele e uno scaldavivande con un pratico recipiente per arrostire le castagne.

Queste ceramiche oggi si possono trovare in prevalenza nei musei e nelle raccolte private. Solo alcuni di questi recipienti sono ancora in vendita nei mercatini dai ceramisti, o vengono collocati davanti alle semplici case bianche e agli atelier dei vasai per invitare i passanti ad acquistarli. Solo dalle conversazioni con la gente del posto venni a sapere che le donne più anziane utilizzavano ancora in cucina le stoviglie in ceramica nera.

A questo punto maturò la decisione di raccogliere queste splendide ceramiche di uso quotidiano in una mostra sulla ceramica nera. Si tratta di oggetti d’uso semplici che dovevano risultare visibili in tutta l’arcaica bellezza e la sorprendente funzionalità che sono il prodotto di un processo di secoli. Per questo sono stati messi in scena su pedane o tavoli di castagno, per trasmettere il senso di meraviglia che si prova pensando a come una cultura contadina così povera e apparentemente priva di pretese abbia potuto dare vita a una tale ricchezza.

Io stessa ho cercato di lavorare con la ceramica nera per capire quali possibilità creative offra oggi questo materiale dalle caratteristiche interessanti.

A Berlino ho progettato alcuni oggetti e in Portogallo ho esaminato con i ceramisti la possibilità di realizzarli. I pezzi in ceramica sono stati realizzati da Alessandra Monteiro e Carlos Lima a Tondéla-Molelhos. Entrambi hanno intrapreso questo progetto insolito con la giusta dose di curiosità e hanno modellato con entusiasmo i pezzi in ceramica richiesti, alcuni dei quali di grandi dimensioni. L’unico vero vincolo per quanto riguarda il formato dei pezzi era costituito dal forno installato all’aperto.

All’interno dell’atelier si spandeva un impalpabile profumo di eucalipto, proveniente dalle bacche che crescono intorno alla fornace e che con il calore del forno cominciavano a profumare.

Gli oggetti da me progettati

Sono tutti in relazione con il Portogallo, i suoi usi e le sue tradizioni; analogamente ai tappeti anche in questo caso alcuni aspetti importanti o secondari sono diventati il punto di partenza per il progetto.

Per esempio: “L’Inferno”

In realtà è una roccia nera come ne esistono tante nelle acque portoghesi. L’idea che in una di queste rocce fosse ricavata la porta degli Inferi ha suscitato ben oltre il Medioevo sentimenti di paura e insicurezza, perché là iniziava una terra di nessuno ritenuta pericolosa per molti secoli.

A riflessioni analoghe fa riferimento la “Lingua del Diavolo”, che viene messa in mostra come se fosse un trofeo.

“Piccola torre”

Quest’opera prende spunto dalla consuetudine dei conquistatori portoghesi di erigere sulle sponde delle terre e isole appena scoperte i cosiddetti “padraos”, segnali scultorei attraverso i quali le rivendicazioni di possesso dei vari re assumevano una forma concreta. Ogni nave di esploratori era equipaggiata con piccole sculture in pietra da utilizzare per qualsiasi evenienza. Esse recavano lo stemma del re portoghese, mentre le date della conquista venivano incise a scalpello direttamente sul posto a bordo della nave.

Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile questa mostra attraverso consigli e contributi di vario genere.